sabato 27 ottobre 2012

We are all living in Berlino

Berlino è una città da vedere almeno una volta nella propria vita. Soprattutto per chi vive a Roma. Berlino è l'antitesi di Roma. Una città quasi totalmente ricostruita e moderna che lascia respirare le sue strade e i suoi cittadini. Una città che dà spazio alle auto, ai mezzi pubblici, ai pedoni e ai ciclisti. 
Io e mia moglie abbiamo avuto il piacere di visitarla con la splendida compagnia di due persone che, fra i tanti pregi, parlavano tedesco e ci hanno tolto l'annoso e fastidioso compito di dover comunicare con albergatori, commessi, ristoratori e via dicendo.

I fantastici 4, una volta arrivati al Leonardo Hotel e sistemati i bagagli, hanno deciso di visitare per prima cosa uno dei simboli della capitale: AlexanderPlatz
 
La piazza rappresenta appieno la continua ricostruzione e il rinnovamento di una città che più volte è rinata dalle sue ceneri. La torre della televisione, alta e imponente, svetta come punto di riferimento su una lunga piazza che regala una storia secolare. Particolarmente belli Marienkirche e il Rotes Rathaus.

Dopo una cena tipica nell'ottimo Gerichtslaube, l'albergo e il letto ci hanno accolto per ricaricare le batterie e i muscoli.

Il mattino seguente, dopo una tipica colazione tedesca, la prima tappa è stata Potsdamerplatz: una piazza in cui l'architettura moderna e tecnologica la fa da padrona. 

Il grattacielo triangolare di Renzo Piano, il Sony Center e i palazzi di Giorgio Grassi sono solo alcuni degli edifici che sbalordiscono la vista dei turisti. E in quale piazza potevamo trovare il Legoland Discovery Center se non qua? Un museo interamente fatto di LEGO in cui siamo tornati bambini: un must!
Ritornati al mondo reale, ci siamo goduti la splendida vista del Panoramapunkt, che dal suo ventiseiesimo piano (l'ascensore più veloce d'Europa ti ci porta in soli 3 secondi) ci ha permesso di ammirare dall'alto tutta la città.

Dalla piazza si raggiunge velocemente a piedi uno dei monumenti più particolari che io abbia mai visto: l'Holocaust-Mahnmal


A poche centinaia di metri si trova la Porta di Brandeburgo, tappa obbligatoria in un viaggio a Berlino, così come lo è una visita ai resti più significativi del Muro. Meno obbligatori, ma sicuramente interessanti, sono il Bauhaus-Archiv e la cupola del Bundestag


La lunga giornata si è poi conclusa con una seconda cena tipica tedesca al ristorante Xantener.

Secondo giorno, seconda colazione a base di uova e pancetta, per darci la giusta carica per la lunga passeggiata richiesta dallo Zoo


Vederlo tutto ci avrebbe occupato l'intera giornata e avrebbe richiesto due gambe di riserva. Non avendo né l'una né le altre vi abbiamo trascorso la "sola" mattina, per poi proseguire nel pomeriggio al Duomo di Berlino.

 
Un ottimo posto dove sedersi, riposarsi e contemplare gli splendidi particolari di uno degli edifici più imponenti di tutta Berlino.
A pochi metri dal duomo abbiamo visitato il Pergamonmuseum.


Oltre al magnifico altare di Pergamo (che dà il nome al museo) si possono ammirare la Porta del mercato di Mileto e la Porta di Ishtar, due imponenti opere che lasciano tutti a bocca aperta. 

Le gambe hanno iniziato a chiedere pietà, ma per fortuna la nostra gita si è conclusa lì. L'albergo ci ha accolto per l'ultima notte. La mattina dopo, bagagli in auto e... pensavate fosse finita qui? Illusi!

Lo splendido castello prussiano di Charlottenburg non poteva essere ignorato.


Le sue numerose stanze ricche di sfarzo, in pieno stile del Barocco italiano, ci hanno accompagnato alla scoperta della storia di Sofia CarlottaFederico I di Prussia e della loro dinastia.

E qui, purtroppo, finisce veramente la nostra gita a Berlino. Il viaggio dei fantastici 4 è in realtà proseguito in auto nel traffico tedesco (ho scoperto che in Germania c'è un traffico incredibile) verso l'ovest, ma questa è un'altra storia!

Alla prossima!


 

domenica 14 ottobre 2012

Le cinque fasi dell'elaborazione del lutto informatico

Il mio è un lavoro particolare, bellissimo e frustrante allo stesso tempo. Proiettato nel futuro ma ancorato alle tipiche incomprensioni che hanno segnato la storia: io faccio il programmatore.

Una volta programmare era una delle tante cose che sapeva fare un "Informatico". I veri pionieri di  questo lavoro erano dei factotum: dal microchip alla ricerca, dal software all'hardware. Col passare degli anni, anche questa disciplina è stata frammentata e burocratizzata, rendendo così il programmatore l'operaio del terzo millennio, alle prese con la sola creazione di software.

Queste armate Brancaleone dell'informatica si ritrovano spesso a dover affrontare il duro compito di creare un programma le cui funzionalità sono definite in un documento (più o meno dettagliato), avendo a disposizione il minor tempo possibile. Anche se non siete del mestiere, provate a immaginare la difficoltà di creare in fretta un software che sostituisca un lavoro fino a quel momento cartaceo o poco più, senza aver mai saputo nulla di quel lavoro. I clienti sono i più disparati e, di conseguenza, ci si ritrova in ogni progetto a dover imparare qualcosa di nuovo: da come viene amministrata l'energia a come viene gestito un lavoro ministeriale e così via. Questo è il bello del mio lavoro: conoscere tanti lavori. Purtroppo però il più delle volte, l'analisi (la fase iniziale di un progetto in cui gli analisti capiscono cosa il cliente vuole che si realizzi) è fatta male, di fretta e da altre società. I programmatori si ritrovano così a realizzare un software per un cliente senza mai parlare col cliente stesso. Un po' come correre con un polso legato alla caviglia.
Questo modo di lavorare comporta, nella maggior parte dei casi, la non perfetta realizzazione al primo tentativo di ciò che il cliente vuole (tenete presente che spesso neanche il cliente ha un'idea precisa di cosa voglia prima di vederselo di fronte). Questo implica che ad un certo punto il programmatore si accorga che ciò che sta realizzando sarà, in un certo qual modo, un fallimento. 

Quando ci si rende conto di questo, si attraversano le cinque fasi dell'elaborazione del lutto informatico.

1) Negazione o Rifiuto: in questa fase non si vuole credere che il progetto stia prendendo una direzione sbagliata. Non si dà retta al collega che fa notare l'evidenza. Tipiche le frasi: "Ma come è possibile che l'analisi sia sbagliata?", "Ma è possibile che il cliente voglia veramente questo?", "Non ci posso credere!".

2) Rabbia: in questa fase il programmatore vorrebbe azzannare la tastiera e qualsiasi collega gli capiti sotto tiro, soprattutto il collega che (secondo lui) è responsabile principale del fallimento. Si rischia di rovinare rapporti,  a volte anche amichevoli, e ci si guarda in cagnesco. Tipiche la frase: "Perché proprio a me?!"

3) Contrattazione o Patteggiamento: in questa fase si cerca di capire quanto del lavoro fatto sia da buttare nel cesso e quanto sia effettivamente quello che il cliente voleva. Si cerca quindi di correggere il tiro, sperando di avvicinarsi il più possibile al vero obiettivo. Tipiche le frasi: "Se rifacciamo questa parte, forse al cliente non farà troppo schifo", "Impostiamo per bene le prime funzionalità, almeno inizia con qualcosa di corretto".

4) Depressione: in questa fase si capisce che ormai il software in questa sua prima versione è spacciato, inutile ogni tentativo di refactoring. Ci si rende conto che l'obiettivo è distante o, peggio, ancora ignoto e si deve quindi arrivare alla consegna, pronti a ricevere le critiche e le eventuali richieste di modifica. Tipiche le frasi: "Questo software non finirà mai", "Questo software non funzionerà mai!".

5) Accettazione: quando si arriva all'ultima fase ci si mette l'anima in pace e si capisce che ormai quello che si sta realizzando sarà un parente lontano di ciò che il cliente si aspettava. Se si è stati bravi, il codice è pronto però a essere corretto velocemente, una volta ricevute le giuste indicazioni.  Tipiche le frasi: "Andiamo avanti così, inutile lottare ancora", "L'analisi fa schifo, non è colpa nostra".

Una volta superate queste cinque fasi, il programmatore è pronto a iniziare un nuovo progetto e riprendere il ciclo dall'inizio.



Google Trans... late

Oggi è il compleanno di una mia amica Turca. 'Sti cazzi, direte voi. Quello che volevo condividere con voi era il tentativo di farle gli auguri in turco aiutandomi con Google Translate.

La frase originale in italiano era: 

"Spero che Google Translate traduca bene, è la prima volta che faccio gli auguri in turco: BUON COMPLEANNO! Un abbraccio! ZioYkaro!"

Translate mi proponeva: 

"MUTLU YILLAR: google de tercüme umut, ben Türkçe istediğiniz ilk kez! Kucaklıyorum. ZioYkaro!"

Ora, per scrupolo e pignoleria, ho avuto (per fortuna) l'idea di provare a ritradurre in italiano questo turco improvvisato. Ho smesso di ridere solo pochi minuti fa:

"FELICE ANNO NUOVO: google translate speranza, voglio la prima volta in turco! Embrace. ZioYkaro!"

Ho sfiorato il caso diplomatico!

sabato 13 ottobre 2012

Occhio, ma anche orecchio.



In un periodo in cui la cultura è stata messa sotto il tappeto, mi accorgo giorno dopo giorno di come, nel vano tentativo di rialzarsi e guardare oltre la nebbia mediatica, si utilizzi un periscopio ormai inadatto.
Ci ritroviamo in un deserto di idee, di sogni e di informazione.
Venti anni di totale disinformazione non solo hanno permesso a tanti di agire nell'ombra, ma hanno anche devastato la passione del conoscere, la ricerca di noi stessi e di ciò che ci circonda. Le persone si annoiano nell'udire qualcosa che va oltre quel ristretto vocabolario che ormai conoscono a memoria. Uscire fuori dagli schemi è paragonabile ad una bestemmia, in un periodo in cui se non hai uno smartphone sei fuori moda. Ormai la priorità è diventata ciò che si ha e non ciò che si sa. 
Ma anche quando qualcuno, con fatica, cerca di informare, suggerire una via diversa da quella segnata dalle linee politiche e mediatiche, viene visto come uno strano, un fomentato. Siamo arrivati ad un punto in cui chi impone è un leader, chi suggerisce è un coglione. 
La cultura va diffusa e tutelata, in tutte le sue forme. Purtroppo siamo caduti così in basso che, per poter rialzarci e riuscire a far di nuovo correre la mente, dobbiamo toglierci prima quella polvere di banalità e sufficienza. Aprire le sinapsi per nuove informazioni, senza paura, senza timore di scoprire qualcosa che non si conosce.
Dobbiamo iniziare a scrivere meno e leggere di più. 
I social network permettono di condividere e informare creando una ragnatela globale di cultura e informazione, ma è inutile appendere milioni di manifesti se nessuno li legge. Errore madornale limitarsi al solo scrivere, sentendosi migliori di altri. La cultura è impacchettare un'idea, spedirla agli altri e far sì che venga capita e discussa. La cultura è avere un'opinione che vada oltre gli stereotipi. 
La cultura non è morta, è lì come un fungo, che aspetta solo di esser trovata e colta.

domenica 7 ottobre 2012

50 sfumature di Twitter

In questi ultimi mesi mi sono appassionato a Twitter e, come sempre, mi sono divertito ad analizzare le svariate tipologie degli attori che ne fanno parte e le interazioni che scaturiscono fra di loro.
Principalmente amo seguire i VIP perché da loro trovo i maggiori spunti di riflessione. Oltre a scoprire che non tutti se la tirano come si potrebbe pensare, seguirli mi permette di assistere alle migliori diatribe dialettiche.  
Questo succede perché su Twitter sono nate le TwitStar (persone sconosciute che a colpi di tweet ironici e provocanti sono riuscite a collezionare migliaia di follower). Questi se la tirano più di molti VIP anche perché, come in ogni ambiente chiuso, si creano fazioni, invidie e antipatie a volte molto infantili. Tutto ciò ha portato anche alla creazione di nuove malattie: la più diffusa è l'ansia da defollow.  



Ci sono persone che venderebbero le loro falangi per qualche decina di follower in più e appena qualcuno li abbandona soffrono più di un labrador nell'autostrada imprecando e ululando alla luna. Taluni non si spiegano come i loro Tweet (di merda) non piacciano! 
Per non parlare dei veri e propri saccheggi. Nello squallido tentativo di rendersi sempre più simpatici parecchi soggetti copiano spudoratamente i tweet degli utenti più carismatici spacciandoli per loro. Trovo questa azione di una stupidità assurda, soprattutto in un social network dove, giustamente, si possono condividere i tweet più belli. Quale orgoglio può dare un plauso per una tweet rubato? Mistero. 

Noto infine lo strano stupore di tanti (soprattutto i VIP) nello scoprire che la maggior parte degli utenti ama fingersi sul web ciò che non è. Anche Twitter ovviamente offre la possibilità di reinventare se stessi fingendosi qualsiasi cosa. L'esempio più comune è fingersi belli quando si è nella realtà poco più di un cesso. Ma allo stesso tempo ci sono (anche se in minore quantità) persone belle che si divertono a fingersi cessi. Nella vita reale si finge ogni giorno, volontariamente o no. Siamo uno, nessuno e centomila e internet aiuta a fingere ancora meglio. 
Non stupitevi quindi (e non rimanete delusi) se al primo raduno coi vostri tweetamici vi ritroverete circondati da  perfetti sconosciuti.